Le proteste dei contadini indiani, per la maggior parte sikh, di cui abbiamo già scritto su Templi d’Oggi, continuano. Nelle ultime due settimane le tensioni hanno portato a molti scontri violenti in tutto il mondo, compreso in Canada, Stati Uniti, e Australia, dove vivono grandi comunità indiane.
In particolare, in Australia una folla di estremisti indiani di destra, sostenitori del partito nazional-induista del primo ministro indiano Modi, ha attaccato un gruppo di sikh con mazze e martelli.
Per capire le ragioni di una tale violenza si deve prima comprendere la natura del moderno nazionalismo indiano. L’ideologia Hindutva vede l’India come una patria indù, e l’attuale governo di Delhi abbraccia apertamente questa visione. Su questa base ideologica, i funzionari indiani hanno screditato come “anti-nazionali” i manifestanti che si opponevano alla legge di cittadinanza antimusulmana, e hanno fatto lo stesso con coloro che si sono opposti all’improvvisa abrogazione da parte di Modi dell’autonomia del Kashmir, che è a maggioranza islamica.
La stessa tattica viene usata in risposta alla protesta degli agricoltori, guidata dai contadini sikh di casta Jat del Punjab. Il governo sta presentando il movimento come un tentativo subdolo di separatismo (alcuni sikh sognano uno stato indipendente, il Khalistan), ma mentre un ampio segmento della popolazione indiana ha riconosciuto la propaganda, essa ha fatto presa sui nazionalisti. Ecco perché i sostenitori del governo hanno preso di mira le comunità sikh, sia in India che all’estero.
Nel frattempo, nonostante l’inverno i manifestanti sono ormai nelle strade di Delhi da più di tre mesi, e l’India si rifiuta di abrogare le leggi. Non c’è alcuna indicazione che la situazione di stallo si risolverà presto, e le violenze, sia in India che in tutto il mondo, non accennano a fermarsi.