Le condanne di Ali al-Nimr, Abdullah al-Zaher e Dawud al-Marhun, arrestati da adolescenti per aver preso parte a manifestazioni antigovernative nel 2012, sono state ridotte a 10 anni di carcere. L’uscita è quindi prevista per il 2022.
I tre erano stati arrestati con accuse di terrorismo dopo le proteste nella provincia orientale dell’Arabia Saudita, che è dove vive la maggioranza degli sciiti del paese ma anche dove si trovano i giacimenti di petrolio. Al-Nimr aveva 17 anni, Al-Marhun 17 e al-Zaher 15. I gruppi per i diritti umani avevano definito i processi altamente viziati, dicendo che si basavano su confessioni indotte con la tortura.
Le nuove condanne sono invece in linea con un decreto reale emesso ad aprile 2020 da re Salman che applica retroattivamente la legge sui minori a tutti gli individui condannati alla pena di morte per crimini commessi mentre erano minorenni. Riyadh ha anche annunciato che porrà fine all’uso della fustigazione come punizione per alcuni crimini.
Il regno wahabita, quindi fortemente antisciita, ospita la Mecca e la tomba di Maometto ed è tra i “leader mondiali” della pena di morte. Dopo il record di 185 esecuzioni nel 2019, l’Arabia Saudita ha giustiziato 27 persone nel 2020, secondo i dati ufficiali del governo. Ma da quando è sotto i riflettori dopo l’omicidio e smembramento nel 2018 del giornalista del Washington Post Jamal Khashoqji presso il consolato saudita di Istanbul, il principe ereditario Mohammed bin Salman sta lentamente tentando di ripulire l’immagine del suo paese, storico alleato degli Stati Uniti e rivale dell’Iran.