Entrare in un negozio, chiedere di provarsi un vestito e sentirsi dire “mi spiace, abbiamo solo taglie fino alla 42!” E se invece sei una ragazza normale, magari dal fisico mediterraneo, una taglia 44 per capirci, con un seno prominente? La moda a te sembra proporre solo tute, camicioni, tuniche insomma….. E se hai 13, 14 anni, che effetto può avere tutto questo sulla tua personalità, sul concetto che cominci ad avere di te stessa? Sfogli la rivista femminile di un quotidiano nazionale e guardi le modelle, i loro corpi magrissimi, affusolati, le loro taglie 38…… sono parte di un mondo di successo, sono ragazze gratificate continuamente per la loro bellezza, sono donne con un invidiabile e innegabile potere sugli altri….. o almeno così tu le vedi.
Per chi si occupa di moda è impossibile prima o poi non confrontarsi con tutto questo, non riflettere responsabilmente sulle ricadute psicologiche e sociali che l’industria dell’immagine può avere sulle menti “in formazione”. Ecco perché abbiamo deciso di parlarne con Armando Cotugno, uno dei massimi esperti di Disturbi del Comportamento Alimentare (anoressia, bulimia, alimentazione incontrollata) che, da qui in avanti, chiameremo più semplicemente DCA.
Armando Cotugno è uno psichiatra, psicoterapeuta didatta della Società Italiana di Terapia Cognitiva e Comportamentale, si occupa da ormai molti anni di adolescenza ed è Responsabile del Servizio per i DCA della ASL Roma 1, nonché fondatore del Centro Clinico de Sanctis di Roma.
Dottor Cotugno, da molti anni ormai il mondo della moda è sul banco degli imputati per quanto riguarda l’aumento dei casi di anoressia e di DCA in generale.
Ma è vera questa influenza, esiste davvero una relazione?
Esiste effettivamente una relazione, ma riguarda in primis le stesse modelle, che con una frequenza piuttosto significativa arrivano a soffrire di bulimia nervosa, caratterizzata da abbuffate alimentare e da vomito autoindotto.
Varie agenzie di moda propongono addirittura delle linee guida per le ragazze che lavorano nelle sfilate e che consistono nel controllo del ciclo mestruale attraverso l’assunzione di specifici ormoni, affinché il ciclo e il gonfiore che può produrre non coincida con i periodi delle sfilate, quindi in un’attenzione ossessiva alle forme, associata all’imposizione di una dieta ferrea e alla richiesta di una maggiore restrizione alimentare da ottenere prima delle sfilate. In questo modo, le modelle vengono spinte verso elevatissimi standard prestazionali riguardanti forma e peso e verso comportamenti che non possono non avere effetti a lungo termine sulle ragazze più vulnerabili. Viene infatti suggerito un comportamento di “controllo al bisogno”, che consiste nei tipici meccanismi di compenso adottati dalle bulimiche per controllare gli eccessi: nell’uso di diuretici e lassativi, nell’iperattività, nel vomito e nella restrizione dell’assunzione di cibo.
Per fortuna, alcuni settori del mondo della moda cominciano a diventare più sensibili su questo tema e ci sono state varie campagne lanciate negli ultimi anni. Alcune agenzie, per esempio, non producono più abiti – e non accettano più modelle – che siano sotto la taglia 42. DOVE, il famoso marchio che produce prodotti per l’igiene personale, per citare un altro esempio, ha lanciato una campagna di scontro aperto contro gli stereotipi femminili centrati sulla magrezza associata al successo.
A proposito di questo, che cosa può dirci sull’influenza che le immagini pubblicitarie possono avere su questi disturbi?
Sulla popolazione generale ci sono state sicuramente grandi influenze. Lo scorso secolo, definito a causa dei grandi e rapidi cambiamenti storici il “secolo breve”, è stato anche chiamato “il secolo della magrezza”. Dalla fine dell’800 a oggi, infatti, la forma del corpo della donna è stato fatto oggetto di una crescente attenzione: già a fine ‘800, per esempio, tra le abitudini vestiarie delle classi abbienti, compaiono i cosiddetti “corpetti”, uno degli strumenti tesi proprio a modellare le forme femminili, inoltre compaiono le prime diete per la ricca borghesia, agli inizi del ‘900 Vogue definisce i nuovi criteri di bellezza per le donne: gambe lunghe e magre, vita assolutamente stretta. Il nuovo modello femminile, che mai prima di allora aveva avuto tali caratteristiche, interessa soprattutto la ricca borghesia. Ma proprio per questo diventerà sempre di più uno standard ideale connesso a potere e successo sociale.
A dire il vero, anche i primi movimenti di liberazione della donna, che già nel 1920 spingevano per una maggiore autonomia e libertà femminili, proponevano una grande attenzione per l’immagine corporea. Valentina, il personaggio del fumetto creato da Crepax , richiama proprio le prime modelle degli anni ’20, quindi di ormai cento anni fa, prima della Grande Crisi.
Dopo le grandi guerre, la crescente attenzione al corpo è andata di pari passo da un lato con la fiorente industria della moda e, dall’altro, con i cambiamenti sociali e con quell’immagine “liberata” della donna così in auge a partire dagli anni ’60, che è stata furbamente incorporata dall’industria della moda: l’esempio tipico diventa l’indossatrice Twiggy, l’eterna adolescente, magrissima e quasi senza seno.
Negli anni ‘80 tutto questo si é ulteriormente acuito: alcune case di moda lanciarono una agguerrita campagna contro l’obesità (vera o presunta che fosse), una modella tedesca comparve su Vogue con il motto “No all’obesità”.
Anche la TV ha avuto un ruolo sempre maggiore in tutto questo: da un lato continuando a sostenere l’associazione magrezza/potere/successo/felicità, dall’altro portando contemporaneamente alla ribalta, spinta dalle industrie alimentari, l’attenzione al cibo, al che cosa mangiare, al quanto mangiare, alle componenti nutrizionali, che è divenuta un’altra sorta di ossessione dei nostri tempi, alla base di quella “ortoressia” così spesso vicina ai comportamenti anoressici.
E i social come Instagram etc., così frequentati dagli adolescenti, quale ruolo sembrano svolgere nella diffusione dei DCA?
Negli anni ‘90 i nuovi device hanno letteralmente invaso l’esperienza di vita e il mondo relazionale dei nostri ragazzi con un nuovo e pervasivo aspetto: quello di un confronto interpersonale costante che quasi sempre assume un registro competitivo/agonistico. I social, le foto pubblicate, le persone frequentate, le attività esibite, sono una grande e continua vetrina, una “passerella” di continui e quasi inevitabili paragoni con “le vite degli altri”. I sentimenti di inadeguatezza proliferano, il senso di esclusione dalla vita davvero degna diventa a volte devastante. Negli Stati Uniti è stato coniato il termine di shit life suicide: la propria vita, seppur normalissima, appare insignificante, inutile e senza senso, se confrontata con i sorrisi, i corpi, i consumi mostrati nelle storie e nei post “delle persone fighe”. Ecco, la ricerca di consenso su questi social passa solo ed esclusivamente attraverso l’immagine “pubblica”, non attraverso la vera conoscenza reciproca e la ricerca di intimità con gli altri. Un’immagine pubblica, sociale, una sorta di “maschera” esibita, che per le adolescenti finisce molto spesso nel raggiungimento delle forme esili, nella magrezza del corpo, su cui si scatenano ammirazione e apprezzamento, ma anche invidie e fallimenti, oppure insulti e offese, attraverso una competizione sempre più estrema che incita a non mangiare, a mostrare “fin dove si è capaci di arrivare”.
I social per fortuna non sono solo questo, anzi posso dire che al momento svolgono di fatto un duplice ruolo: ci sono i social che rappresentano un valido aiuto per uscire dai DCA, le testimonianze di persone che hanno superato il problema, i siti di informazione e mutuo appoggio, e i social che continuano invece a proporre un crudele scontro agonistico basato sull’aspetto fisico, che producono effetti a volte letteralmente devastanti sui nostri ragazzi.
Il mondo adolescenziale è caratterizzato da cambiamenti culturali spesso rapidissimi e che conosciamo solo in parte (esistono vere e proprie “subculture” tra i giovanissimi che mediano la comunicazione sui social, che propongono obiettivi e promuovono comportamenti).
Di sicuro, se vogliamo imparare a intervenire con maggiore efficacia, gli adulti devono conoscere sempre meglio e monitorare con attenzione quello che accade sulla rete.
Antonio Onofri e Riccardo Onofri