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giovedì, Dicembre 5, 2024

Fast Fashion? NO grazie!

Cosa si intende quando si parla di fast fashion e quali sono le sue disastrose conseguenze?

Sin dalla sua definizione, “un design che passa rapidamente dalle passerelle ed influenza le attuali tendenze moda”, un lessico del XX secolo, troviamo la natura stessa della filosofia di pensiero che sta alla base di questo modello di fare impresa che tanto ha caratterizzato la Fashion Industry: la moda concepita come “istantanea” portatrice di due dogmi “velocità ed economicità”.

Di qui il passaggio ad una “moda usa e getta” è immediato! Ecco che tonnellate di abiti in discariche, consumo di risorse naturali, energia, inquinamento diventano solo alcune delle innumerevoli argomentazioni dei sostenitori di un processo inverso: il Fast Fashion viene additato come causa della corruzione dell’intera filiera

Iniziano le campagne “CONTRO”… il Covid-19 non ha fatto altro che accendere la miccia della bomba e farla scoppiare, il Fast Fashion sta distruggendo non solo il pianeta, ma anche il nostro armadio!

How to low cost?

Come cambierà il nostro modo di fare shopping? Si passerà ad un nuovo concetto di lusso ad una “moda sostenibile”, questo l’Item più in voga già da tempo ed ora solo amplificato e reso palese agli occhi di tutti. 

Si tratta di un settore dell’abbigliamento che realizza capi di bassa qualità a prezzi super ridotti e che lancia nuove collezioni rapidamente in tempi strettissimi, ispirandosi a ciò che sfila sulle principali catwalk delle maison icona della moda. Nell’occhio del mirino le grandi catene presenti ormai in ogni città del mondo ed in ogni centro commerciale. 

Tutti noi siamo stati abbagliati da quella che sino ad ora era apparsa come una grande opportunità: acquistare capi nuovi di volta in volta a prezzi ridotti.

E’ arrivato il momento della presa di coscienza – anche per chi ha voluto in passato chiudere un occhio su questo aspetto, non certo recente – che il primo sguardo non basta più, ma è necessario porsi delle domande, approfondire e conoscere meglio chi ci presenta tutto questo come fosse qualcosa di fantastico!

Tra i primi vi e’ il gruppo Inditex, con un fatturato di 26.15 miliardi di euro ed un utile netto di 3.44 miliardi di euro! E per riuscire a produrre dei profitti così elevati vendendo prodotti a prezzi così bassi, c’è da qualche parte qualcosa a cui non si sta prestando attenzione!

Vari sono nel mondo i movimenti globali che realizzano campagne no profit per modificare il sistema dell’industria della moda, pretendendo maggiore trasparenza ed etica nell’intera filiera.

Che abbia il Covid-19, tra le tante drammaticità, innescato un meccanismo di ribalta dello status-quo? Sicuramente! Il sistema moda è cambiato inesorabilmente dallo scorso 23 Febbraio 2020.

Come un capo può costare così poco? Quante volte ci siamo posti questa domanda, perdendoci tra uno scompartimento ed un altro degli sfavillanti megastore che popolano le nostre città? Il nostro modo di fare shopping già profondamente cambiato negli ultimi anni, e la cui conseguenza era stato il Fast Fashion, oggi più che mai con l’avvento della pandemia da Covid-19, è destinato a cambiare nuovamente, spostando il focus è attorno a questo fenomeno.

Il Fast Fashion nasce dall’esigenza di soddisfare il desiderio dei consumatori di acquistare un capo di alta moda ma ad una fascia di prezzo accessibile a tutti. Questa tendenza ci ha permesso di costruire un armadio sempre più grande con capi che indossiamo e sfoggiamo giusto il tempo di farci trascinare dal trend del momento, per poi essere gettato via o dimenticato in fondo al proprio guardaroba senza troppi “pentimenti”…ma siamo sicuri di aver fatto la scelta giusta in termini di “sensi di colpa”? C’è da chiedersi qual è il vero valore dei prodotti a basso costo.

La strategia dei grandi colossi di produzione è quella di far durare le mode così poco in modo da creare continui trend e spingere le persone ad acquistare d’impulso!

Vediamo quali sono i punti chiave di questo sistema.

Make ethical shopping

Il New York Times utilizzò l’espressione “fast fashion” per la prima volta alla fine del 1989, quando Zara aprì le porte del suo store nella Grande Mela: l’articolo descriveva un nuovo modello di fare business, dove bastavano 15 giorni perché un capo di abbigliamento (in questo caso di Zara) passasse dalla mente creativa di uno stilista all’effettiva vendita in negozio. La “fast fashion” viene considerata un processo di democratizzazione della moda, un fenomeno economico che ha permesso a tutti di vestirsi bene seguendo le ultime tendenze. Tuttavia, i ritmi di produzione di queste aziende sono sostenibili solamente producendo in paesi dove il costo del lavoro e della manodopera è basso e, di conseguenza, dov’è facile che i lavoratori vengano sfruttati e sottopagati.

Fast fashion: come funziona?

 ‘‘Rendere la moda delle passerelle accessibile a tutti’’ è il motto. Questo sistema, infatti, si propone di vendere al consumatore le ultime tendenze provenienti dallo sfavillante mondo della moda a prezzi facilmente accessibili, dove il focus è dare una risposta alle necessità e alle richieste del pubblico nel minor tempo possibile: produce (molto) rapidamente una serie di prodotti che soddisfano i gusti dei consumatori, e ciò è possibile grazie ad una scrupolosa e dettagliata comprensione dei bisogni che nascono nel pubblico.

Il sistema di Quick Response, ad esempio, è molto utilizzato da Zara, fashion retailer considerato tra i più efficienti e validi in questo circuito dell’alta velocità, che consegna nei propri negozi monomarca nuovi capi d’abbigliamento almeno una volta ogni due settimane. Tutto parte dalla base, dove ci si concentra sulla riduzione del tempo che intercorre tra la progettazione e la produzione di un capo: designers e menti creative all’interno dell’azienda ricercano incessantemente ed elaborano nuovi trend dando vita in seguito a nuovi capi, che vengono prontamente spediti nel reparto di produzione che si occupa di realizzarli nel minor tempo possibile, per poi poterli consegnarli successivamente in negozio.

Tutto questo per dire che i brand delle catene low-cost cercano di dare una risposta sempre più rapida ai consumatori, tanto quanto lo sono le tendenze, regalandogli una maggior scelta e disponibilità dei capi da acquistare.

Tanti sono i brand coinvolti. Questo modello affonda le sue radici già nella seconda metà del 1900, sebbene sia un fenomeno molto recente e di cui ormai tutti conoscono il significato. Per citare alcuni nomi, H&M esiste dal 1947 quando, nella città di Västerås lo svedese Erling Persson aprì il negozio “Hennes” (in svedese “hennes” significa “le cose di lei”), che proponeva abiti economici e alla moda. La “M” del nome verrà aggiunta solo in un secondo momento, e deriva dal nome di un rivenditore di abiti da uomo che fu acquisito da Persson stesso nel 1968, Mauritz Widforss. Zara invece fu fondata nel 1975 in Spagna dove vendeva copie economiche di capi di abbigliamento di marchi famosi e dagli anni Ottanta in poi applicò il modello di produzione della “moda istantanea”, con una squadra di stilisti che disegnava intere collezioni molto velocemente. La britannica Topshop e l’irlandese Primarkfurono aperte entrambe negli anni Sessanta. Topshop nel 1964, come parte di alcuni centri commerciali, mentre Primark fu fondata a Dublino nel 1969. Mango, Forever 21, River Island, Uniqlo e Berskha sono solo alcune tra le più famose e conosciute catene che hanno e continuano ad aprire nuovi negozi in Europa e in tutto il mondo, sostenendo il fenomeno della moda veloce e ad alta rotazione.

Anche il mondo del cinema/fiction non ha tralasciato di trattare l’argomento: The True Cost, non il solito documentario.

Rilasciato non recentemente da Netflix, una piccola perla che in 90 minuti cambierà per sempre il vostro modo di guardare il modello della fast fashion. Diretto da Andrew Morgan nel 2015, questo documentario si concentra sulla Fast Fashion Industry in tutti i suoi aspetti più macabri e oscuri: partendo dal tragico e straziante crollo del Rana Plaza in Bangladesh nel 2013 che uccise oltre un migliaio di lavoratori tessili, tra cui moltissime donne, The True Cost discute dei vari aspetti dell’industria dell’abbigliamento. Dalla produzione, alle condizioni dei lavoratori a basso reddito nei paesi in via di sviluppo, dall’inquinamento alle malattie e in alcuni casi anche la morte, l’industria del fashion viene spogliata da tutto il suo sfarzo e analizzata in ogni suo aspetto meno pubblicizzato.

Il film passa attraverso il Bangladesh, l’India e la Cambogia, paesi dove è concentrata maggiormente la produzione dei brand più famosi, e spiega il prezzo umano, ad esempio, di quella maglietta che trovate sugli scaffali di Zara per sette euro. 

Strettamente correlato è anche il tema dell’ambiente e il prezzo che l’industria ha su di esso: i tessili scartati non sempre sono facilmente smaltibili. Spesso contengono materiali sintetici o inorganici che danneggiano gravemente l’ecosistema, in quanto difficilmente degradabili. Ma questa non è l’unica tipologia di rifiuti che sta causando danni all’ambiente: ci sono anche le sostanze e i metodi di produzione dei capi che rilasciano sempre sostanze nocive, pesticidi e coloranti negli ambienti acquatici delle comunità che cooperano con i grandi fashion retailers. 

Da questo si può dedurre come la moda sia uno dei tanti fattori che ha causato l’aumento dei danni ambientali nel corso degli anni.

Ma The True Cost non racconta solo questo: il documentario include anche molteplici esempi di come le persone e i consumatori possano fare la differenza, non mostrando semplicemente i modi distruttivi in cui opera questo settore, ma anche le opportunità di reinventarlo attraverso piccole scelte.

Ovviamente questo modo di vendere attira molti clienti, ma dietro a un costo così basso e accessibile a tutti i portafogli è nascosto lo sfruttamento e realtà ben oscurate dai brand.

Choose the right clothing

In questo contesto, è fondamentale la segnalazione della sempre più seguita e sostenuta “Fashion Revolution Week”, la campagna di sensibilizzazione dedicata alla moda consapevole. Carry Somers, co-fondatrice del movimento Fashion Revolution, afferma che: quando tutto nell’industria della moda è focalizzato sul profitto, i diritti umani, l’ambiente e i diritti dei lavoratori vengono persi. Questo deve finire, abbiamo deciso di mobilitare le persone in tutto il mondo per farsi delle domande. Scopri. Fai qualcosa. L’acquisto è l’ultimo click nel lungo viaggio che coinvolge migliaia di persone: la forza lavoro invisibile dietro ai vestiti che indossiamo. Non sappiamo più chi sono le persone che fanno i nostri vestiti, quindi è facile far finta di non vedere e come risultato milioni di persone stanno soffrendo, perfino morendo.

Questo movimento solleva la questione più scottante del sistema moda negli ultimi anni: chi e come vengono prodotti i vestiti che acquistiamo? Una domanda non da poco. 

Noi tutti siamo chiamati oggi più che mai a contribuire alla generazione di un cambiamento positivo nell’industria della moda e nei suoi modelli di consumo. Noi tutti dovremmo compiere il primo passo per la presa di coscienza di ciò che significa acquistare un capo d’abbigliamento, coscienza che ci dovrà condurre verso un futuro più etico e sostenibile per l’industria della moda, nel rispetto delle persone e dell’ambiente.

E’ una sfida che accettiamo? Già da un pò ho iniziato a chiedermi: io che responsabilità ho? 

 

Marlena Ianniello
Marlena Ianniello
Dottore in Economia e Commercio. Laura in Economia all’Università degli Studi di Salerno. Ha conseguito un master di specializzazione in Credit Management e maturato una pluriennale esperienza sul campo sviluppando ed implementando progetti di Credit Policy in collaborazione con la Cerved, Data-provider ed Agenzia di Rating, tra i principali operatori italiani nell'analisi e nella gestione del rischio di credito. E’ Project Manager di African Fashion Gate e del Premio la Moda Veste la Pace che si celebra ogni anno al Parlamento Europeo di Bruxelles.

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